La festa dei morti e i suoi riti: dalla tradizione celtica a quella contadina cremonese
La festa dei morti e i suoi riti: dalla tradizione celtica a quella contadina cremonese
di Hasan Andrea Abou Saida
L’origine delle festività e dei riti del mondo contadino cremonese si può ricercare negli usi e costumi degli antichi popoli presenti in questo luogo migliaia di anni fa. Molto prima della conquista e creazione della colonia romana nel 218 a.C., nel territorio dove ora sorge Cremona vivevano i Celti, una popolazione indoeuropea proveniente dall’Asia minore e giunta in Europa attorno al 3500 a.C. I Celti erano composti da molte tribù, e alcuni di loro detti Insubri si stanziarono nella Valle del Po tra il V e il IV sec. a.C. Ma prima ancora dei Celti, questa zona era abitata da un’altra popolazione, i Liguri, i veri nativi italici. Della presenza ligure in Padania rimane molto poco, soprattutto sono i lacerti linguistici. Il suffisso ‘ona’ infatti ci da una conferma della effettivo insediamento dei Liguri nel cremonese. Di solito i suffissi sono quelli che terminano in ‘asco’, Livrasco, Porcellasco, Marasco. Non è difficile pensare infatti che questi due popoli si siano scambiati conoscenze dando alla luce una tradizione comune di riti e celebrazioni. La spiritualità dei nostri avi, sia Celti che Liguri, era basata sui cicli della Natura, sull’alternarsi delle stagioni e sui movimenti ed influenze celesti. L’uomo antico viveva in stretta simbiosi con Madre Natura da cui dipendeva, e dalla quale inconsapevolmente dipende ancora oggi. In questo articolo, si cercherà di riscoprire le antiche radici celtiche delle tradizioni cremonesi, al fine di capire meglio i profondi significati di certe festività e ritualità tuttora ancora presenti nella nostra vita e società.
Festa dei morti e dei santi – 31 Ottobre / 1 – 2 Novembre
Secondo i Celti, l’anno era suddiviso in due parti uguali e iniziava il 1° Novembre con la festa di Samhain o Samonios (come veniva chiamata dai Celti Insubri), la metà «oscura» dell’anno; Samhain raggiungeva il suo culmine al 1° Maggio con la festa di Beltane o Cetsamltain, l’inizio della metà «chiara». I Celti, attraverso questi due particolari momenti dell’anno, celebravano il sorgere e il calare delle Pleiadi, un gruppo di stelle della costellazione del Toro molto importanti per tantissimi popoli, indicando così i due punti fondamentali nella ruota dell’anno.
Samonios, ovvero il “Tempo della Fine dell’Estate”, segnava la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo: simbolo di morte e di rinascita, era considerata una porta aperta tra due dimensioni, quella terrena e quella spirituale. In questo tempo, si conclude la stagione del verde e inizia quella del seme. E’ tempo di raccogliere gli ultimi frutti, il tempo dell’ultimo raccolto, per sostenerci durante tutto l’inverno. Con l’avvicinarsi dei primi freddi invernali, a Samonios le mandrie e le greggi venivano riunite e si macellavano tutti gli animali, tranne quelli destinati a riprodursi la stagione seguente. Questi giorni erano segnati da un gran consumo di alimenti che soddisfaceva tutti per l’ultima volta prima delle ristrettezze dell’inverno, e che prevedeva perciò il consumo dei cibi in eccesso che non potevano essere conservati. Il culmine di questa festività avveniva durate la vigilia del 31 Ottobre, nella quale si entrava nella metà oscura dell’anno e le porte dell’Altromondo si aprivano per mettere in comunicazione il mondo spirituale con quello terreno 1.
Le feste celtiche iniziavano sempre una settimana prima del giorno indicato e proseguivano per un’altra settimana, per un periodo totale di 15 giorni. I festeggiamenti di Samhain terminavano 1’11 novembre, giorno che per la tradizione cristiana coincide con l’estate di san Martino. Durante questo periodo, spiriti degli antenati tornavano a camminare tra i vivi, dando la possibilità ad entrambi i mondi di scambiarsi messaggi e di festeggiare insieme. Samhain è il punto di congiunzione tra due anni (il vecchio e il nuovo) e tra due mondi (il visibile e l’invisibile), senza appartenere né a quello precedente né a quello seguente, un giorno fuori dal tempo e dallo spazio.
Per questo motivo, Samonios era il momento più adatto per praticare riti divinatori che riguardavano la previsione del tempo, matrimoni e la fortuna per l’anno venturo. Inoltre, era il tempo anche di importanti riunioni, battaglie e sacrifici rituali. Durante la notte, tutti i focolari di ogni villaggio venivano spenti, per poi essere riaccesi con un Nuovo Fuoco il mattino seguente 2.
Nei paesi di lingua inglese la vigilia di Samhain, il 31 ottobre, ha così preso il nome All Hallows’ Eve (Vigilia di Ognissanti), più popolarmente conosciuta come la notte di Halloween, durante la quale le persone vanno in giro mascherate da mostri, streghe e folletti. Il mascheramento moderno tuttavia riprende l’antica pratica del travestimento iniziatico rituale utilizzata dagli antichi sciamani europei per mettersi in comunicazione con la realtà spirituale, i propri antenati, spiriti benigni e divinità, e nel contempo proteggersi contro gli spiriti maligni.
Tutto questo lo si ritrova, modificato nei nomi e adattato alla simbologia cristiana, nelle tradizioni popolari cremonesi. Durante il mattino del 1° Novembre nel XIX secolo ad esempio, le ragazze in età da marito traevano dai cassetti fiori di campo, raccolti in estate e fatti seccare, e con essi creavano una treccia che poi buttavano alle spalle; secondo la forma che la treccia assumeva, cercavano di leggervi una lettera dell’alfabeto, l’iniziale dell’uomo che dovevano sposare 3.
La festa di Samhain inoltre, per i nostri avi celtici, si trasformava in un grande banchetto a cui partecipava sia i vivi che i defunti, ricco di carne di maiale, vino, birra e idromele.
In modo analogo, in alcune zone del cremonese le tavole non venivano sparecchiate, affinché anche i morti potessero rifocillarsi. Una variante di questo rito era quella di preparare tanti posti in tavola quanti erano stati i defunti negli ultimi tempi. Alla mattina del 2 Novembre, il padrone della casa si alzava prima del solito e faceva alzare tutti i familiari per rifare con particolare cura i letti, badando bene a sprimacciare i guanciali, in modo tale che i morti, stanchi per il lungo cammino, potessero dormire bene nel loro letto. Per lo stesso motivo, in altre case il 2 novembre i letti non venivano affatto rifatti, così i defunti potessero trovarsi più a loro agio a contatto col tepore dei propri familiari 4.
Un’altra usanza del XIX secolo era quella di passare la notte del 1° Novembre davanti ai cancelli del Camposanto in attesa dell’apertura. Infatti entrare per primi nel cimitero il 2 Novembre era considerato di buon auspicio, poiché tutte le anime dei defunti ne sarebbero state riconoscenti. Alcuni cimiteri, come quello di Soresina, erano dotati di panchine per rendere più comoda la notte. La veglia era ravvivata da falò, bottiglie di vino e caldarroste, un vero e proprio banchetto. Aperto il cimitero, si andava alle tombe dei propri cari per accendere un cero e depositare i campi di fiori. I ceri accesi il 2 Novembre avevano poteri magici e i resti del cero estinto venivano raccolti e portati a casa e rifusi, formando delle piccole candele, con la funzione di amuleti protettivi in caso di grandi calamità in famiglia. Usciti dal cimitero, la prima preoccupazione era quella di recarsi in una osteria per bere vino e mangiare i tipici fagiolini dell’occhio con le cotiche, il piatto tipico del giorno dei morti (tramandato dalle usanze celtiche di mangiare maiale e vino). Altri piatti tipici del 2 Novembre erano la zuppa di ceci o di fave, cibo rituale dei defunti. A livello simbolico, il fagiolo, come tutti i legumi e specialmente le fave, sono legati al caos e alle forze infere (Saturno – Luna). Nelle campagne le mamme raccomandavano ai bimbi di non attardarsi nei campi di fagioli, perché poteva apparir loro il demonio. Il fagiolino dell’occhio era l’unica specie di fagiolo presente nell’alimentazione degli Etruschi e degli altri popoli italici, a confermare la sua antichità. Per questo motivo lo si mangiava nei giorni dei morti, un’azione magica di protezione (principio ermetico del “simile che cura il simile”), esattamente come i travestimenti rituali.
Sempre per lo stesso motivo, si consumava il dolce caratteristico di questo periodo, gli ossi dei morti, dei biscotti a forma di osso duri come un osso, e le castagne arrosto. Un’altra tradizione cremonese era quella di consumare superalcolici dopo aver sentito la Prima Messa e prima di recarsi al cimitero: si andava in un’osteria e si prendere un bicchierino di grappa, un rito sottoposto anche ai bambini (agli spiriti piace lo “spirito”) 5.
Festa di San Martino – 11 Novembre
Con il giorno di San Martino, come abbiamo accennato, si concludeva il periodo di Samonios e la fine dell’anno agricolo. Oggi questa funzione è meno evidente di un tempo, quando nel XIX secolo a Cremona in questo giorno cominciava l’attività dei tribunali, delle scuole e dei Parlamenti, si tenevano le elezioni municipali, si pagavano fittanze, rendite e locazioni, venivano rinnovati i contratti agrari oppure si traslocava, tant’è vero che oggi ancora si dice «far San Martino» per traslocare. Le famiglie contadine avevano la possibilità in questo giorno di cambiare cascina, un nuovo lavoro, cercando una nuova casa, cosa non sempre facile. Firmati i nuovi contratti, le famiglie caricavano le proprie masserizie su un carro agricolo, partivano per una nuova destinazione, sapendo che da lì ad un anno, probabilmente, avrebbero dovuto traslocare.
Era anche un giorno di festeggiamenti con fiere, fuochi e banchetti innaffiati dal vin novello perché «per San Martino ogni mosto è vino». Un’usanza cremonese antica di secoli era quella di spinare il nuovo vino per San Martino, mandandone un po’ ad amici e parenti, oppure invitandoli per il primo assaggio. Era una vera e propria cerimonia condotta dal brentatore che portava la classica scusalèta azzurra con grandi tasche davanti: faceva zampillare un po’ di vino nella sua scodella di legno, degustando un piccolo sorso, e confermando la bontà del vino al padrone 6.
Similmente ai grandi banchetti dei Celti che concludevano il periodo di Samonios, nel cremonese era usanza banchettare allegramente per festeggiare San Martino. Soprattutto nel Nord Italia, oltre ai prodotti stagionali come il vino e le caldarroste, il giorno di San Martino si consumavano piatti a base di maiale ed oca. In questo periodo, le oche selvatiche migravano (e lo fanno tuttora) da nord a sud, ed erano quindi facile preda dei cacciatori. L’oca è anche l’animale simbolico di san Martino e rivela, come vedremo, il rapporto strettissimo che collega la figura leggendaria del santo con la tradizione celtica.
Il nome Martino deriva dal latino Martinus e significa “consacrato a Marte“. Martino di Tours nacque a Sabaria Sicca in un avamposto dell’impero romano alle frontiere con la Pannonia. Il padre, tribuno militare della legione, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. In quanto figlio di un veterano, anche Martino dovette arruolarsi, diventando circitor, con il compito di ispezionare i posti di guardia e sorvegliare le guarnigioni. Presso i romani, l’oca è uno tra gli animali sacralizzati sia alla dea Giunone che al dio Marte 7.
San Martino ha assunto, più delle altre festività precedenti, le funzioni del capodanno agricolo e celtico. Martino fu nel primo medioevo il santo più popolare dell’Occidente, soprattutto in Francia dove più di cinquecento borghi e cittadine portano il suo nome. Era il patrono della monarchia francese, ma anche della gente di chiesa, dei soldati, dei viaggiatori che appendevano un ferro di cavallo sul portale della chiesa a lui dedicata, degli osti e degli albergatori, dei vignaioli, dei vendemmiatori e di molte confraternite. San Martino rappresenta un santo soldato che cavalca un bianco destriero con una cappa (mantello) corta che combatte il diavolo e i mali del mondo. Una leggenda dice che San Martino cavalchi per i campi su un cavallo bianco, facendo cadere dal suo mantello la prima neve della stagione 8.
In provincia di Bergamo è tradizione che nella notte tra il 10 e l’11 novembre San Martino porti i regali a tutti i bambini proprio come nel giorno di Santa Lucia.
La figura del cavaliere San Martino richiama un culto celtico di un dio cavaliere che portava anch’esso una mantellina corta: il culto proveniva dalla Pannonia, terra celtica e patria di san Martino. Era un dio del mondo infero che trionfava sulla morte passando per un luogo di cento porte, Wigalois il cavaliere con la ruota. Ma Martino il santo-divino non poteva regnare sull’inferno cristiano, così è stato trasformato in un cavaliere che combatte il diavolo e cavalca un bianco destriero 9.
L’infernale creatura del dio cavaliere dei Celti sopravvisse in alcune parti dell’Irlanda meridionale fino al XIX secolo nella figura dell”hobby horse”, noto come Láir Bhán (cavallo bianco). Un uomo coperto da un lenzuolo bianco e con un teschio di cavallo decorato (che rappresenta il Láir Bhán ) guidava un gruppo di giovani di fattoria in fattoria, suonando le corna di vacca. In ogni fattoria, i giovani recitavano dei versi, alcuni dei quali “assaporavano fortemente il paganesimo”, e il contadino doveva donare del cibo. Se l’agricoltore avesse donato del cibo, avrebbe potuto aspettarsi una buona fortuna dal “Muck Olla”; non farlo invece porterebbe sfortuna 10.
Inoltre, a San Martino in Italia si svolgeva la fiera più importante di animali dotati di corna, ossia mucche, buoi, tori, capre, montoni. Perciò la fantasia popolare ha ironicamente promosso san Martino patrono dei mariti traditi. La “caccia al becco” era un’usanza simile a quella del capro espiatorio. Secondo la mentalità dell’epoca il marito tradito si era macchiato di una colpa grave poiché l’adulterio della moglie era considerato un segno di debolezza dell’uomo, di incapacità a controllare la consorte; e perciò il “becco” doveva subire una scherzosa persecuzione rituale. E così il cerchio si chiude con la rievocazione della mascherate che si facevano a Samonios indossando le pelli e le corna degli animali uccisi per il sacrificio 11.
1 Taraglio, R. (2005). Il vischio e la quercia : la spiritualità celtica nell’Europa druidica (Nuova). Torino: L’età dell’acquario, pagg. 365 – 367.
2 Ibid.
3 Dacquati, L. (1980). Ròbe de na vòolta. Cremona: Edizoni de “Lo Sport Cremonese.”, pag. 171.
4 Ivi, p. 175.
5 Ivi, pp. 173 – 174.
6 Ivi, pp. 181-182
7 Martino di Tours. (28 ottobre 2020). Wikipedia, L’enciclopedia libera, https://it.wikipedia.org/wiki/Martino_di_Tours (ultima visita 02/11/2020).
8 Cattabiani, A. (1988). Calendario : le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno. Milano: Rusconi CDE, pagg. 213 – 217.
9 Ibid.
10 Samhain. In Wikipedia, The Free Encyclopedia, https://en.wikipedia.org/w/index.php?title=Samhain&oldid=986093100 (ultima visita 30/10/2020)
11 Cattabiani, A. (1994). Lunario: dodici mesi di miti, feste, leggende e tradizioni popolari d’Italia. Milano: Mondadori, pag. 341.
Bibliografia
Dacquati, L. (1980). Ròbe de na vòolta. Cremona: Edizoni de “Lo Sport Cremonese.”