Sulla rappresentazione collettiva della morte – Robert Hertz
Sulla rappresentazione collettiva della morte – Robert Hertz (1978). Roma: Savelli Editori, 156 p. ; 19 cm.
La fama (largamente postuma) di Robert Hertz – studioso della cosiddetta «generazione perduta», caduto al fronte nella Prima guerra mondiale a 33 anni, e che ha ritrovato oggi il posto che gli competeva tra i «classici», tra Durkheim e Mauss – è soprattutto legata agli scritti che compaiono in questo volume: l’Etude sur la représentation collective de la mort e La préeminence de la main droite. Etude sur la polarité religieuse. Il primo costituisce il più illustre e documentato precedente di tutta la serie di indagini – sociologiche e antropologiche – sul problema, che in questi ultimi anni sono venute alla luce (da Ariés a Foucault, da Morin a Ziegler, da Fuchs a Landsberg, a Sarda, a Thomas) a prova che la morte, come ha scritto G. Gorer, ha preso il posto (che apparteneva al sesso) nella scala dei tabù.
La tesi fondamentale di Hertz è che la morte, nelle società primitive, viene avvertita come mandalo, disordine, contagio; perché rappresenta, per l’insieme sociale, il rischio assoluto, la prova e la misura della propria vulnerabilità e precarietà: e in quanto tale, la morte viene «rifiutata» e trasformata, attraverso una serie di pratiche e di produzioni ideologiche, in un momento di pareggio, da una condizione a un’altra, da una società (visibile) a un’altra (invisibile, ma altrettanto «reale»): in questo modo, morire è anche rinascere, e il gruppo – dopo un intenso travaglio – può ricomporsi, i vivi coi morti. L’esame delle pratiche e delle credenze relative alla morte conduce Hertz a riconoscere le opposizioni fondamentali che l’antropologia moderna porrà alla base di molte proprie teorie: natura-cultura, puro-impuro, sacro-profano. Il problema di questo dualismo presente nella coscienza collettiva (dualismo che si riflette nella divisione del lavoro, nel mondo del culto, nella gerarchia sociale, ecc.) viene direttamente affrontato nel saggio che chiude il volume: si tratta anche qui di uno scritto divenuto molto presto un piccolo «classico».
Robert Hertz (22 giugno 1881 – 13 aprile 1915), fra i più promettenti allievi della Scuola di Émile Durkheim, è stato una singolare figura di studioso. Morto a soli 33 anni nella Prima Guerra Mondiale, oltre al testo qui presentato, Hertz ha lasciato un pugno di pubblicazioni di feconda importanza su oggetti di studio diversi fra i quali le rappresentazioni collettive della morte, un culto alpino, e le nozioni di peccato ed espiazione.
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