Reincarnazione, Ancestralità e Iniziazioni: la visione dell’anima nell’Antica Roma
Reincarnazione, Ancestralità e Iniziazioni: la visione dell’anima nell’Antica Roma
La reincarnazione è un’antica credenza presente in numerose tradizioni spirituali e religiose, dalle filosofie vediche dell’India alla religione egizia, fino al pitagorismo in Grecia. Secondo questa idea, l’anima, dopo la morte del corpo fisico, si reincarna in un nuovo corpo, sia esso umano o animale, continuando così un ciclo di vite successive. Questo processo si ripete fino a quando l’anima raggiunge uno stato di purezza o illuminazione, che pone fine al ciclo delle rinascite.
Nel contesto dell’antica Roma, la religione ufficiale era politeista, centrata sul culto degli dèi e degli antenati. Anche se la religione romana tradizionale non incorporava una dottrina esplicita di reincarnazione, l’idea non era completamente estranea ai Romani, grazie all’influenza di pensieri e religioni esterne. L’influenza della cultura greca sulla Roma antica è evidente, e il concetto di reincarnazione giunse a Roma attraverso la filosofia greca. Cicerone, uno dei più celebri oratori e filosofi romani, esamina l’idea di trasmigrazione dell’anima in diverse sue opere, sebbene non fosse un fervente sostenitore di tale dottrina. Nel suo trattato “Sulla vecchiaia” (De Senectute), Cicerone attribuisce a Catone il pensiero che:
“Gli uomini vengono al mondo con un bagaglio di pensieri e di conoscenze che non hanno acquisito in questa vita, ma che hanno portato con sé dalla loro vita precedente. È come se le loro anime portassero con sé delle tracce delle esperienze passate.”
Nel medesimo trattato, Cicerone discute l’idea della necessità di trasmigrazione dell’anima per espiare colpe precedenti e purificarsi dai peccati passati:
“Degli antichi veggenti e interpreti dei segreti del cielo, come oracoli e profeti, parlavano di un destino dell’anima che trasmigra e si reincarna, basandosi su una tradizione che ritenevano avesse una base di verità. Essi credevano che le anime, dopo la morte, passassero da un corpo all’altro, accumulando esperienze e conoscenze.”
“Gli uomini sono nati per soffrire e per pagare alcuni peccati commessi; per questo sono sottoposti a molte tribolazioni e dolori.”
Il pitagorismo, fondato da Pitagora, proponeva che l’anima fosse immortale e si reincarnasse in diversi corpi fino a raggiungere uno stato di purificazione. Questa idea era collegata alla dottrina dell’anamnesi, secondo cui l’apprendimento era un processo di reminiscenza delle conoscenze acquisite in vite precedenti. Macrobio, scrittore latino del V secolo, affermava:
“Coloro che avevano adottato le opinioni di Pitagora e di Platone riconoscevano due morti: quella del corpo e quella dell’anima. La prima avveniva quando l’anima lasciava il corpo; ma l’anima moriva quando andava a distribuirsi nelle membra del corpo che doveva animare. Allontanarsi dalla fonte sublime era per lei perdere la vita e ritornarvi era rinascere. Con la prima morte, l’anima si liberava della sua cattività per andare a godere i veri tesori della natura e della libertà che le è propria; con l’altra, al contrario, che noi chiamiamo la vita, l’anima è privata della luce della sua immortalità e precipitata nelle tenebre di una specie di morte.”
Poeti romani come Virgilio e Ovidio accettavano l’idea della reincarnazione dell’anima. Nell’Eneide di Virgilio, nel VI libro, Enea scende negli Inferi e incontra l’ombra di suo padre Anchise, il quale spiega la nascita e la purificazione delle anime e la loro preparazione a una nuova incarnazione dopo aver bevuto l’acqua del fiume Lete, il fiume dell’oblio:
“Anime, a cui altri corpi un fato dà, a cui vietato è di passare il Lete, prima di scordar le loro antiche pene, e di venire agli oscuri acquisti.”
Anchise aggiunge:
“Dunque, chiunque tu veda, che or porti qui la faccia, alla luce di sopra ritorna, e vive in altra vita: ma il Lete deve prima ogni memoria del passato lavar.”
Ovidio, nel suo poema “Metamorfosi”, esplora in dettaglio il concetto di trasmigrazione delle anime. Il concetto di metempsicosi è trattato esplicitamente nel libro XV, dove Pitagora, il noto filosofo greco, espone le sue idee sul cambiamento e sulla continuità dell’anima. Pitagora sostiene che le anime non muoiono mai, ma si trasferiscono da un corpo all’altro, e che la morte è semplicemente un cambiamento di forma:
“Nulla perisce nell’universo; credetemi, ma tutto cambia e la morte, che è detta distruzione di vita, altro non è se non mutamento di sede.”
In questo contesto, Ovidio attribuisce a Pitagora l’idea che tutte le cose sono in uno stato di flusso continuo, e che le anime migrano da un corpo all’altro, riflettendo direttamente la dottrina della metempsicosi. Pitagora esorta a rispettare tutte le creature viventi, poiché l’anima che un tempo abitava un corpo umano potrebbe ora risiedere in un animale.
Accanto al pitagorismo, l’Orfismo, una corrente di pensiero greca, condivideva una visione simile della trasmigrazione dell’anima. I Misteri di Bacco, una forma romana dei misteri orfici, credevano che l’anima, caduta nel mondo materiale, dovesse attraversare diverse reincarnazioni prima di ritornare al divino. Questo pensiero, focalizzato sulla purificazione dell’anima, trovò eco tra alcuni Romani, specialmente nei riti dei Misteri di Bacco, celebrati in onore di Bacco (Dioniso in Grecia), dio del vino e dell’ebbrezza.
Apuleio, scrittore e filosofo romano di origine berbera, era un fervente sostenitore dei riti misterici e degli insegnamenti esoterici riguardanti la trasmigrazione dell’anima. Apuleio, seguace del platonismo, approfondisce il concetto di reincarnazione nel suo “De Deo Socratis”, esplorando il “genio” o “daimon” come intermediario tra il divino e l’umano. In quest’opera, l’anima è vista come un’entità aspirante a tornare alla sua origine divina, ma ostacolata dalle contaminazioni terrene.
Nel suo romanzo Le Metamorfosi (noto anche come L’asino d’oro), Apuleio esplora in modo profondo il tema della trasformazione, utilizzandolo come una potente metafora della trasmigrazione dell’anima. Il protagonista, Lucio, viene trasformato in asino per un errore durante un incantesimo, e attraverso una serie di avventure piene di sofferenza e apprendimento, cerca disperatamente di ritornare alla sua forma umana. Questo percorso culmina nell’intervento della dea Iside, che gli consente di riprendere sembianze umane, un evento che può essere interpretato come una vera e propria rinascita spirituale.
Il concetto di rinascita spirituale è espresso chiaramente nella preghiera che Lucio rivolge a Iside nel libro XI:
“Nasciamo infatti due volte, una al principio quando usciamo dall’utero e vediamo il giorno, e l’altra quando, nella sapienza dei misteri, riceviamo la verità che ci conduce alla luce della vita eterna. Questo secondo nascere non si compie da sé, ma attraverso un intervento divino che, per mistero, ci solleva dal fango e ci fa partecipi della divinità stessa.”
Questa descrizione della “seconda nascita” evidenzia un tema caro alla tradizione filosofica e religiosa antica: il percorso dell’anima che, attraverso prove e purificazioni, si eleva per ritornare alla sua natura divina. L’espansione dell’Impero Romano portò i Romani a contatto con molte culture diverse, incluse quelle dell’Egitto e dell’Oriente, dove credenze come la reincarnazione erano ben radicate. Gli Egizi, ad esempio, avevano una concezione complessa della vita dopo la morte, che includeva l’idea che l’anima potesse ritornare in vita in varie forme. Sebbene l’enfasi egiziana fosse più sulla risurrezione che sulla reincarnazione in senso stretto, la concezione egiziana della trasmigrazione dell’anima influenzò certamente i Romani, specialmente attraverso il culto di Iside, che divenne estremamente popolare a Roma.
L’influenza orientale si manifestò anche attraverso il Mitraismo, una religione misterica di origine persiana che si diffuse ampiamente tra i soldati romani. Sebbene il Mitraismo non promuovesse esplicitamente la reincarnazione, la sua visione ciclica del tempo e dell’esistenza poteva facilmente preparare il terreno per una maggiore accettazione di queste idee tra i suoi seguaci.
Nella religione romana, il culto degli antenati occupava un ruolo centrale. I Romani credevano che gli spiriti dei defunti, noti come Manes, continuassero a influenzare il mondo dei vivi e dovessero essere onorati attraverso riti e sacrifici. I Manes erano considerati le anime dei morti che potevano vagare sulla Terra, ma erano anche numi tutelari, onorati con libagioni di latte e vino e con feste, come i Parentalia, celebrati dal 18 al 21 febbraio di ogni anno. Questo culto era così radicato nella Roma arcaica che, già ai tempi di Virgilio, i Manes erano identificati come divinità dell’oltretomba, legate a leggi inflessibili a cui tutti gli uomini erano soggetti. Durante i Parentalia si credeva che le anime dei defunti potessero camminare liberamente tra i vivi, rinforzando l’idea che il mondo dei morti non fosse del tutto separato da quello dei vivi.
Il culto degli antenati era inoltre collegato alla credenza che un’anima, se non adeguatamente venerata, potesse diventare un’entità inquieta o malevola. Questo concetto di un’anima che continua a esistere e interagire con il mondo dei vivi è in qualche modo parallelo alla nozione di reincarnazione, dove l’anima prosegue il suo viaggio in nuove forme di vita. I Romani credevano che le anime dei defunti, una volta trapassati, scendessero nell’oltretomba, governato dal dio Plutone. Tuttavia, alcune anime potevano essere costrette a ritornare sulla terra, qualora fossero arrivate nel regno dei morti senza essere purificate dalle istanze terrene. Il destino di queste anime è simile a quello descritto da Dante nel Purgatorio, dove le anime devono purificarsi prima di raggiungere la pace eterna.
Il sistema religioso romano domestico si basava quasi esclusivamente sul culto degli antenati, in particolare dei Lari. Queste divinità protettrici della casa rappresentavano gli spiriti degli antenati defunti. Apuleio afferma che anche l’anima umana è un demone, e che gli uomini diventano Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male, e sono considerati Mani se la loro qualificazione è incerta.
Bibliografia
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