Vita di Milarepa: i suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione – Mi-la-ras-pa
Vita di Milarepa: i suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione – Mi-la-ras-pa, a cura di Jacques Bacot (1966). Milano: Adelphi Edizioni, 228 p., [1] c. di tav. : ant. ; 22 cm.
«Milarepa fu mago, poeta ed eremita. Lo fu successivamente e in modo così completo che i Tibetani fanno fatica a non separare questi tre personaggi e, a seconda del loro punto di vista di maghi, di laici o di religiosi, Milarepa è il loro più grande mago, poeta o santo. Questo essere singolare visse nell’undicesimo secolo della nostra èra e la sua memoria è ancora viva nel Tibet come fosse di una personalità da poco scomparsa». Con queste parole l’eminente tibetologo Jacques Bacot, curatore della Vita di Milarepa, introduce la figura del santo. Ai tempi di Milarepa, il buddhismo era penetrato nel Tibet già da quattrocento anni, fondendovisi con elementi di tipo sciamanico e stregonesco dell’antica religione Bön, e venendo quindi ad assumere una fisionomia del tutto peculiare. A questo primo periodo risalgono opere importanti, tra cui soprattutto i Precetti di Padma, ma il vero evangelo del buddhismo tibetano sarà la, più tarda, Vita di Milarepa.
Autobiografia e insieme dottrina, che il discepolo Rechung trascrive dalla viva voce del maestro, l’opera segue passo per passo la storia, esemplare eppure umanissima, di Milarepa, fino alla morte (che il discepolo stesso ci narra). Nato da una ricca famiglia di contadini che, alla scomparsa prematura del padre, viene gettata nella più nera miseria dalla rapacità dei parenti, Milarepa entra in rapporto con la divinità per la via più torbida e brutale: la madre lo istiga a imparare la magia nera per compiere vendetta contro chi li ha derubati dei loro beni. Così, Milarepa comincia a praticare la magia, distruggendo i suoi nemici e terrorizzando il paese. Ma proprio nel trionfo della vendetta gli si rivela la malignità dei suoi poteri. Milarepa va allora alla ricerca di un maestro che lo sottragga alla catena delle colpe e lo conduca verso la liberazione. Sua guida predestinata sarà Marpa il Traduttore, una grande figura della tradizione tibetana. Sublime e rude, santo simulatore, con una meravigliosa finzione di crudeltà e incomprensione Marpa riesce a mettere alla prova più radicale l’allievo, lo stringe in un cunicolo cieco da cui soltanto una fede inesauribile riesce a liberarlo. Ormai, finalmente risvegliato, Milarepa può cominciare la sua lunga meditazione solitaria. Immobile in luoghi deserti, egli procede grado per grado, attraverso prove maceranti, fino alla conoscenza suprema, acquistandosi i miracolosi poteri dell’illuminato. Come spoglie di cui si liberi, egli ci abbandona via via le stupende strofe dei suoi canti, che stanno a pari, per la loro impassibile lucidità, con i più grandi testi religiosi. Infine, ormai vecchio, vittima consapevole del veleno propinatogli da un invidioso rivale, ai discepoli che lo sollecitano perché voglia guarirsi facendo uso dei propri poteri magici, risponde: «Il mio male è un ornamento». E dopo aver dimostrato di poter proiettare questo male fuori di sé, liberandosene, decide invece di accettarlo e morirne, perché il tempo è venuto.
Jacques Bacot (4 luglio 1877 – 25 giugno 1965) può essere considerato come uno dei primi e maggiori conoscitori dell’antico Tibet, su cui egli concentrò i propri interessi di studioso dopo anni di viaggi ed esplorazioni nell’Asia centrale. Autore di varie opere sulla storia, la religione e la lingua del Tibet, egli dà prova, nella sua edizione della Vita di Milarepa (1925) di una finezza di interpretazione dei fenomeni di sincretismo religioso propri al mondo tibetano, e di una sensibilità per i valori umani e poetici del testo, che non si ritrovano- in pari grado nella versione curata qualche anno più tardi, con intenti soprattutto teosofici, da Evans-Wentz, peraltro assai nota nel mondo anglosassone.
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Tag:Buddhismo, Letteratura, Magia, Oriente, Poesia, Religione, Spiritualità, Tibet